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13 anni di carriera sono un
bel fardello da portarsi sulle spalle ed i Backyard Babies, giunti al loro
quarto full-lenght, sembrano avere intuito che questo era l'attimo giusto
per scalare, più di sempre, qualsiasi classifica ed avere un confortevole
posto al sole fra le icone immortali del rock'n'roll. Per produrre quest'album,
gli scandinavi, si sono avvalsi dell'aiuto di un asso come Joe Barresi (Rancid,
Q.O.T.S.A., Kyuss), che aveva già partecipato all'opera di mixaggio
di "Making Enemies Is Good" ed hanno spremuto al massimo le loro
meningi. C'era quel grande bisogno di creare, come nella tradizione di casa,
un lavoro, che pure tenendo fede al proprio trademark sonoro, si discostasse
in qualche maniera dai predecessori. E' passato il tempo del rude "Diesel
and Power", se ne sono andati i difficili anni di vita spesi per inseguire
un sogno, vivendo chissà dove e senza un salario fisso, e sembra
pure scomparsa quella voglia di raggiungere in fretta e furia uno status,
che gli aveva permesso di incrementare anno dopo anno la loro fama con due
buonissimi lavori quali il ridondante "Total 13" ed il più
ruffiano e commerciale "Making Enemies Is Good". Oggi i Backyard
Babies sono, assieme ai The Hellacopters, il punto di paragone per la quasi
totalità della scena rock scandinava e questa consapevolezza, mista
al buon gruzzolo accumulato negli anni, hanno irrimediabilmente ammortizzato
quella rabbia da frustrazione, capace di mettere la nitro addosso ad un
rocker. Ho aspettatto questo come-back, sotto gli influssi di una terribile
impazienza e con un livello di aspettativa veramente elevato, forse spropositato,
ma abbondantemente giustificato dal grande lavoro fatto dai Babies nel passato.
Invece i ragazzi hanno raccattato una sindrome virale, niente di buono,
solo una maledetta influenza stagionale, oppure qualche resistente virus
che se ne andrà prima o poi. Questa recensione, non vuole essere
di certo una netta stroncatura, Dregen e soci, sanno fare vibrare i propri
strumenti con grande maestria, ma i suoni levigati e perfetti di questo
"Stockholm Syndrome" sono quantomeno inappetibili così
come le inconcludenti strutture di songs quali l'iniziale "Everybody
Ready" o l'insulso tentativo dalle devianze stoner a titolo "One
Sound", che sfigura in maniera clamorosa di fronte alle perle contenute
nel recente "Sonic Overload" dei connazionali Rickshaw. "Minus
Celsius", "Pig For A Swine", "Year by Year" o la
più crepuscolare "Earn The Crown" dimostrano sicuramente
la loro validità, ma nulla morde come un tempo: l'ascolto lascia
a tratti indifferente, i refrain non riescono a trasportare l'ascoltatore
nella loro dimensione e le velocità spregiudicate della colossale
"Look at You", tratta da Total 13, sono state del tutto accantonate.
Discorso a parte merita la calibrata e corposa "Myself And I",
nella quale le linee melodiche sono da urlo, grazie anche alla superba interpretazione
di Nicke. La gemma di "Stockholm Syndrome" risiede in "Friends",
song che doveva già comparire sul precedente lavoro, alla quale prestano
la loro voce solista Michael Monroe, Joey Ramone, Danko Jones, Tyla, Nina
Personn (Cardigans), Kory Clarke. I cori vengono supportati da altri artisti
di grande caratura quali: Sami Yaffa, Andy Shernoff, Happy Tom, Euroboy,
Donita Sparks, Jennifer Finch. "Friends" è un dannato e
breve anthem, una helter skelter song: arriva, porta l'adrenalina a mille
e se ne va lasciando impresso nella mente quel suo fantastico ritornello
ed il cantato spezzato dal fumo di Kory che recita: " We meet our friends,
down at the bar, celebrity intoxicated stars". L'edizione limitata
di "Stockholm Syndrome" contiene la bonus track "Shut The
Fuck Up" capace di alzare la mia soglia di gradimento verso il lavoro.
Conclusione: il 4° full-lenght dei Babies è un album discontinuo,
dalla produzione e dai suoni oltremodo puliti, privo della carica grezza
di un tempo ma capace di alcuni grandi colpi di coda. A voi la scelta! Recensione Realizzata da Bruno Rossi. |
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Vote: 6,5 |